[òr·co]
Nella letteratura per l’infanzia, l’orco è un’icona che riassume in sé tutte le paure infantili più ancestrali, è connessa all’incontro del bambino con l’«altrove», con il mostruoso, con l’inconscio, con i lati più ombrosi e complessi dell’interiorità umana. Per i latini Orcus era il dio della morte e degli inferi; per i greci era Kronos, il dio delle origini, abitante dei confini del mondo e nella simbologia etrusca l’orco rappresenta l'abisso, il dio della morte che inghiotte il sole.
Basile ce lo descrive così:
«Era un orco che aveva i capelli come setole di porco, neri neri, che gli ricadevano fino ai malleoli; la fronte grinzosa, [...] la bocca storta e bavosa, dalla quale spuntavano due zanne come di cinghiale; il petto tutto bernoccoli in un bosco di pelame da poterne riempire un materasso; e, soprattutto, alto di gobba, grande di pancia, sottile di gamba, storto di piede; sicché vi faceva scontorcere la bocca per lo spavento».1
L’orco incarna il male o l'avversario, ha la stessa funzione della strega, del lupo, della matrigna, delle sorelle e i fratelli malvagi. Mangia i bambini, divora gli uomini, sradica querce, ha un fiuto infallibile, ottimo soprattutto per la carne umana.
È sempre affamato e si sa che chi pensa con la pancia fa funzionare meno la testa: con astuzia e sale in zucca ci si può salvare.
Lo sa bene Pollicino che nel cuore della notte, ospite con i suoi fratelli in un casa in apparenza molto ricca e pieno di tesori, si ingegna per evitare di essere mangiato dall’Orco:
«Intanto Pollicino rifletteva. E se l’orco ci avesse ripensato? Se si fosse pentito di non averli sgozzati quella sera? Il bambino aveva notato le corone d’oro sulla testa delle orchette, perciò si alzò quatto quatto nel cuore della notte, prese i berretti dei fratelli, più il suo, e andò a metterli sulla testa delle sette figlie dell’orco, dopo aver tolto loro le corone d’oro che mise sulla testa dei fratelli e sulla sua. Così l’orco li avrebbe scambiati per le sue figlie, e le figlie per i bambini che voleva sgozzare.»2
L'Orco ha sette figlie, sette orchette, talmente tanto amate dal padre, da aver ricevuto in dono una coroncina dorata che portano sempre in testa proprio come delle principesse. Grazie alla cecità parziale dovuta al buio, la perdita temporanea della fisionomia mostruosa dell’orco permette la confusione tra i corpi dei bambini e le sette future orchesse vengono sgozzate.
A questo punto conviene correre più forte dell'orco, magari con l'aiuto degli stivali delle sette leghe, che gli abbiamo appena soffiato da sotto il naso.
Alexander Zick Hop-o'-My-Thumb
Hänsel e Gretel dei Grimm ha numerosi punti di contatto con la fiaba di Pollicino di Perrault: oltre alla decisione dei genitori di abbandonare nel bosco i figli a causa della miseria, c’è il pericolo di essere mangiati nel primo caso dalla strega, nel secondo dall'orco. Se da una parte abbiamo la furbizia del più giovane dei fratelli, quello apparentemente incapace a difendere gli altri, dall’altra troviamo la collaborazione dei due bambini, impegnati nel salvarsi reciprocamente la vita.
I bambini riescono a superare le paure con le proprie forze, con l'ingegno e l'astuzia, affrontando le tenebre e il bosco per crescere, per conquistare l'autonomia, liberandosi dalla tendenza regressiva a rifugiarsi nella casa e nel supporto dei genitori:3 l’avventura li ha resi emancipati e alla fine delle rispettive fiabe possono tornare a casa, arricchiti dai tesori dell'Orco-Strega, che sono nutrimento della psiche.
La paura dell’orco e della strega rappresentano la paura dell'Altro, la paura dell'Io.
Sono sempre figure doppie, portatrici di tesori: la forza dell’infanzia nasce dall’aver superato il male inevitabile, l’esperienza negativa, che sia paura, rabbia o pericolo che è da riconoscere e trasformare in risorsa, in tesoro, per imparare a convivere con le ombre del proprio immaginario.
Le case degli orchi e delle orchesse conservano grandi ricchezze, grandi quantità di denaro, tesori persi e mai trovati, custoditi, nascosti e seppelliti; forzieri stracolmi di monete e oggetti rari, metalli e pietre preziose, gemme, gioielli, accumulati e conservati con cura.
«C’era una volta un uomo che aveva dimore magnifiche in città e campagna, stoviglie d’oro e d’argento, letti e poltrone impreziositi da ricami e carrozze tutte dorate; disgraziatamente, però, l’uomo aveva la barba blu, e questo lo rendeva così brutto e repellente che non c’era donna né ragazza che, vedendolo, non provasse l’impulso di scappare.»4
Barbablu con il suo aspetto bizzarro e i suoi modi burberi, è un orco. È una personalità prevaricante, terribile e crudele, caratterizzato dalla barba blu, sterminate ricchezze e l’infausta abitudine di far scomparire le proprie mogli.
Essendo assai ricco è riuscito più di una volta a prender moglie, convincendo le future spose con passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini, merende.
La nuova, ennesima, moglie, abbagliata dalla promessa effimera del benessere, ignora e censura le proprie voci interiori: si immagina la futura vita principesca, piena di delizie, prosperità e dopotutto quella barba non è poi così tanto blu. Clarissa Pinkola Estès ci offre in Donne che corrono coi lupi una sua interpretazione: vede nella fiaba di Barbablu la parabola evolutiva di una giovane donna, che invece di ritenersi soddisfatta del prestigioso materiale aureo acquisito, ascolta l’istinto e la sete di conoscenza che sono prepotenti in lei. Come Pandora che non resiste e apre il vaso e come Eva che non rinuncia a mangiare la mela, la neo-sposa si ribella all’autorità maschile che la sottomette e la confina nell’ignoranza: dal divieto immotivato dell’orco che le proibisce di aprire la piccola stanza segreta, nasce la disubbidienza che si trasforma in una mortale consapevolezza. L’atto del sapere è ciò che è vietato, evidentemente perché è un atto ritenuto pericoloso, temuto.5 La fanciulla alla fine della fiaba non solo si ritrova proprietaria legittima di tutte le ricchezze dell’Orco, ma diventa padrona di sé e vendicatrice delle altre sorelle, quelle finite in una pozza di sangue.
Nelle prime pagine di Grandi speranze, in un cimitero fumigante di nebbia e isolato nel cuore di una landa inospitale, l’evaso Magwitch, con tratti sciamanici a causa della sua deambulazione per il grosso cerchio di ferro attaccato alla gamba, gioca a fare l’orco con Pip:
«“Zitto!” gridò una voce terribile mentre un uomo sbucava tra le tombe, dal vicino portico della chiesa. “Zitto, piccolo demonio, se non vuoi che ti taglio la gola!” L’uomo era spaventoso, vestito di ruvida tela grigia, senza cappello, e con la testa avvolta in un vecchio straccio, aveva ai piedi scarpe rotte e una gamba attanagliata da un grosso anello di ferro. Un’uomo che l’acqua aveva macerato, il fango aveva quasi affogato, le pietre l’avevano reso storpio, i sassi ferito, punto le ortiche, graffiato a sangue i rovi; un uomo che camminava zoppicando, scosso da continui brividi, con lo sguardo fisso davanti a sé; i suoi denti battevano tanto forte gli uni contro gli altri da fargli tentennare la testa: e questo uomo mi afferrò per il mento. “Oh, non mi tagli la gola, signore”, implorai atterrito. “La prego, non lo faccia, signore!” “Il tuo nome?” disse l’uomo. “Presto!”“Pip, signore.” “Te lo chiedo un’altra volta sola” continuò l’uomo fissandomi. “Parla!” “Pip. Pip, signore.” “Dove abiti?” disse l’uomo. “Fammi vede dove” Indicai il punto, dove sorgeva il nostro villaggio, lungo la costa piatta fra ontani e alberi spogli, a più di un miglio dalla chiesa. L’uomo, dopo avermi studiato per un attimo, mi mise a testa in giù e mi vuotò le tasche. Non c’era dentro che un misero tozzo di pane. Quando la chiesa ritornò al suo posto – era stato così energico e violento nel mettermi a testa in giù e l’aveva fatto così precipitosamente che mi ritrovai con il campanile sotto i piedi-, quando la chiesa tornò al suo posto, dicevo, mi ritrovai seduto su un'alta tomba, e tremavo, mentre lui mangiava con avidità il mio pezzo di pane. “Ehi, marmocchio,” disse leccandosi le labbra, “che guance grassottelle hai!” Che fossero grassottelle lo sapevo anche io, sebbene a quel tempo fossi basso di statura per la mia età e poco robusto. “Che il diavolo mi porti! Potrei anche mangiarmele,” esclamò l’uomo scrollando minacciosamente la testa, “avrei proprio una mezza idea di farlo!”»6
Ogni luogo ha la propria rappresentazione di orcaggine, spesso il personaggio è un’esiliato oltraggiato e violento, che va a rafforzare la figura dell’adulto crudele dal quale i bambini si devono difendere. Ma la violenza verbale di Magwitch è dovuta a una situazione disperata: l’evaso obbliga il ragazzo a procurargli del cibo e una lima, minaccia Pip di mangiarlo come rimedio alla fame lancinante che lo divora.
La storia di Dickens partita da un inizio di disagio e miseria e poi approdata a ricchezze e onori, vede Pip, il protagonista, oppresso dalla povertà: la sua è una classica infanzia maltrattata, soggetta all'aggressione e alla violenza, come immediatamente indica quel pigolio, pip, con il quale il protagonista si autobattezza.7
Il bambino dickensiano è una figurina esile e patetica, un orfanello indifeso, sottoposto ad un continuo divoramento psicologico nei primi capitoli del romanzo, da parte di quegli adulti che partecipano al pranzo natalizio: sono orchi e orchesse che logorano l’identità del ragazzo, sono cannibali, come direbbe Schopenhauer, caratterizzati da una volontà egoistica che consuma gli altri per il proprio esclusivo piacere.8
Alla fine del romanzo verrà rivelato che l’ingente somma di denaro donata a Pip affinché potesse studiare e vivere agiatamente a Londra è frutto dell’evaso, dell’orco portatore di ricchezze, una sorta di figura paterna attiva, un protettore-ombra che vuole provare a correggere la condizione di orfano del ragazzo.
Compiuta l’impresa, Pollicino, Hansel e Gretel, la giovane moglie di Barbablu e Pip, diventano ricchi, conquistano un possesso interiore, l’esperienza, la sicurezza, con questo tesoro possono finalmente vivere la loro vita diversi e cresciuti: le monete d’oro dell’orco non sono altro che la metafora di una grande energia acquisita, di conoscenza e di coscienza del proprio essere.
Il diario segreto di Pollicino
di Philippe Lechermeier e Rébecca Dautremer
Rizzoli
Note bibliografiche
1 Basile, G. (2007). Lo cunto de li cunti. Testo napoletano a fronte. Milano: Garzanti. (pp. 284 - 285)
2 Perrault, C. (2016). Tutte le fiabe. Roma: Donzelli. (p. 138)
3 Cfr. Bettelheim, B. (2013). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Milano: Feltrinelli.
4 Perrault, C. (2016). Tutte le fiabe. Roma: Donzelli. (p. 41)
5 Cfr. Estés, C. P. (2016). Donne che corrono coi lupi. Milano: Sperling & Kupfer.
6 Dickens, C. (2017). Grandi Speranze. Milano: Mondadori. (pp. 4 - 5)
7 Cfr. Bernardi, M. (2009). Infanzia e metafore letterarie. Orfanezza e diversità nella circolarità dell'immaginario. Bologna: BUP.
8 Cfr. Schopenhauer, A. (2009). Il mondo come volontà e rappresentazione. Bari: Laterza.
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